Scritto da Maria Concetta Cefalu’
Domenica 18 dicembre 2022 ore 11.00 presso Palazzo Butera , in via Butera 18, a Palermo, si svolgerà la presentazione del libro di Roberto Tagliavia “I mandarini di Ciaculli” , una saga familiare nella Sicilia del dopoguerra, con la prefazione di Enrico Deaglio, Zolfo Editore.
Discuteranno con l’Autore Manoela Patti, dell’ Università degli Studi di Palermo e Claudio Gulli Direttore di Palazzo Butera. A moderare l’evento il giornalista della RAI Mario Azzolini.
Il nostro giornale ha intervistato l’autore Roberto Tagliavia
Roberto Tagliavia è stato funzionario del Partito comunista italiano per dieci anni. Tornato a lavorare nell’agenzia marittima di famiglia dal 1984 al 1992, è rientrato nella vita politica a sostegno del primo governo regionale con assessori del Pci, nato in Sicilia dopo la strage di Capaci. Terminata l’esperienza del governo Campione, ha fatto parte dello staff del gruppo parlamentare Pci nell’Assemblea regionale siciliana, dove è rimasto fin dopo la costituzione del gruppo parlamentare del Pd. È autore di Mai più terra dei silenzi, un dialogo con lo storico Francesco Renda sulle vicende politiche siciliane.
Roberto Tagliavia è il cuore narrativo del romanzo, che racconta la storia della sua famiglia, ” la famiglia Tagliavia” d’illustre tradizione marittima. Sin da subito il lettore è immerso nel periodo storico sociale degli anni cinquanta, e assiste alle vicende e sviluppi socio politico economici del tempo, unitamente agli eventi che investono la storia della famiglia Tagliavia. Il romanzo, afferma Enrico Deaglio nella prefazione, è “un giallo politico finanziario, una saga familiare, con paesaggi e personaggi che rimbalzano di continuo tra idealismo, illusioni e nostalgia, mentre la modernità avanza, a seppellire tutti“. E’ un romanzo che mi ricorda il Marcel Proust di “Alla ricerca del tempo perduto”: qui, in un tempo direi ritrovato, la penna dell’autore racconta i suoi indelebili ricordi, i suoi preziosi pensieri, anche i suoi turbamenti, le sue amarezze, i moti della sua anima, le persone, gli eroi della legalità, per farci capire la realtà che vive, ingiusta, ricca di introspezione e riflessione, amore, dolore e tradimenti, volta alla costante ricerca della legalità e della giustizia. Una romanzo dalla storia pragmatica, emblematica, a tratti angosciante per la rivisitazione peculiare del tragico periodo storico, delle stragi e degli orrori subiti dalla società del tempo che resteranno per sempre nella memoria di ciascuno di noi, toccante per l’amarezza dell’ingiustizia sofferta dall’autore ma dove, alla fine, sembra prevalere incontrovertibilmente la giustizia e la vittoria della legalità .
Nel suo romanzo ” I mandarini di ciaculli “ molte donne protagoniste, fragili , forti, docili, inquiete, felici, tristi, tradite o infelici, tra queste la nonna socialista di sua mamma Vittoria. Qual è l’eredità spirituale che le è rimasta di questa donna?
Mia madre, nata a Parma e poi allieva all’università del professore Chabod, portava in casa una visione moderna ed innovativa per il suo tempo ma in linea con l’emancipata mentalità delle donne emiliane. Sua nonna, che non ho mai conosciuto, era socialista e visse da protagonista le vicende di quella Parma che seppe respingere i fascisti di Italo Balbo, a conferma di una diffusa e solida emancipazione femminile. Probabilmente devo a loro una suggestione di fondo che a tempo debito mi ha aiutato ad andare oltre i confini culturali e di classe nei quali ero cresciuto. Da piccolo guardavo a mia madre e alla sua famiglia come a espressioni tipicamente emiliane, dotate di una libertà di pensiero che me le rendeva molto diverse dal panorama femminile della nostra società isolana. Crescendo, avrei poi scoperto col tempo quante donne siciliane, invece, erano state protagoniste nell’impegno di emancipazione pur in un contesto meno aperto di quello emiliano. Ho maturato così un interesse e una curiosità verso l’universo femminile che trovo molto più stimolante di quello espresso dai miei colleghi maschi. Devo a loro non essere stato schiacciato dagli stereotipi della nostra cultura locale. Così, altrettanto importante è stata la presenza della mia nonna paterna, inglese e dunque figlia di una cultura completamente differente dalla nostra: anche lei una finestra sul mondo e a sua volta da quel mondo osservatrice implacabile dei nostri pregi e difetti locali.
Lei ha frequentato l’Istituto Gonzaga, la moderna scuola dei gesuiti, ed è stato allievo di Padre Ennio Pintacuda gesuita, attivista, sociologo, saggista , direttore dell’Isas, l’Istituto di scienze amministrative e sociali, Presidente del Cerisdi ed autore di numerose battaglie contro la mafia e l’usura. Quanto hanno influito gli insegnamenti di Padre Ennio Pintacuda nella sua vita
In tempi che non lo capivano, asseriva di combattere il clericalismo: scandaloso per un prete! Insegnava a condividere le regole di una comunità ma senza sottomettersi all’organizzazione di queste comunità, fino al punto da abdicare la capacità di ragionare. Ci ha insegnato a non rinunciare mai ai nostri valori e princìpi fondamentali, sfrondandoli da incrostazioni di interessi convenienze e potere, spingendoci a trovare i modi per renderli praticabili e fruttuosi nei tempi odierni.
La figura e la presenza del padre è determinante nella vita di ogni figlio, sempre e a qualunque età. Nel suo romanzo si legge l’amarezza e la tristezza della morte del rapporto con suo padre. Come ha superato questo dispiacere? Come deve essere secondo lei un padre per evitare che questo accada?
Penso che il conflitto col padre sia una inevitabile passaggio di formazione. Un passaggio, dunque, cui segue una più matura ricomposizione dei rapporti. E’ difficile essere padri e io stesso non so se sono riuscito a essere un buon padre, utile in quei passaggi che formano il carattere dei figli. Ho sempre pensato che la prima regola dovesse essere quella di non trasferire su di loro i propri sogni o le proprie ambizioni frustrate, ma di rispettarli come persone che devono vivere un altro tempo nel quale forse i nostri valori non sono sufficienti o addirittura mostrano vistose crepe. Con mio padre resta il rammarico di una ricomposizione mai avvenuta per contrapposte rigidità e per morte sopravvenuta.
Lei scrive : “Quando nel 1974 andai nel corleonese come responsabile di zona, ebbi modo di conoscere uomini e donne che avevano combattuto per i diritti dei contadini insieme a Pio La Torre. C’era l’idea di un’unità tra le grandi componenti popolari, che avevano il comune obiettivo di liberare l’Italia da vecchie incrostazioni e intollerabili ingiustizie, un uomo di particolare umanità”. Pio la Torre morì la mattina del 30 aprile 1982 . Cosa ricorda degli incontri con Pio La Torre e quali sue parole le sono rimaste impresse?
Il suo richiamo a una politica capace di coinvolgere grandi masse e la convinzione che la lotta alla mafia fosse imprescindibilmente legata alla battaglia per il rispetto del lavoro e dei diritti dei lavoratori. L’altro punto forte del suo ragionamento era la visione internazionale dei problemi siciliani e nazionali per cui serviva un grande schieramento politico capace di unire in un programma di rigenerazione del paese anche espressioni politiche degli imprenditori, delle libere professioni, dell’artigianato, dell’intellettualità… insomma, l’idea che per isolare sfruttatori e mafiosi non bastava parlare ai propri sostenitori ma che occorreva farsi ascoltare anche da un mondo più largo che stava intorno.
Nel suo romanzo racconta dei delitti Moro e Mattarella , del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del giudice Rocco Chinnici, creatore di quel pool di magistrati specializzati nel contrasto alla mafia di cui fecero parte i giudici Falcone e Borsellino. Un pensiero a Giuseppe Fava, ” coraggioso e intraprendente giornalista che aveva dato vita a «I Siciliani», una rivista di forte impegno antimafia. Come in un film, con il suo romanzo il lettore attonito rivive e rivede o vive e conosce i momenti tragici della storia degli anni terribili che hanno segnato la nostra società: il rapimento del giornalista Mauro De Mauro mai piu’ ritrovato, l’uccisione del procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, mentre percorreva via dei Cipressi a bordo di una Fiat 1500 nera guidata dall’agente Antonino Lorusso, : ” la cupa stagione terroristica che avrebbe rivelato la profondità della commistione fra apparati dello Stato, settori dei partiti di governo, mafia, interessi internazionali e ambienti parafascisti” . Lo sbigottimento, la tragedia, il dolore, la lotta della società, la sofferenza estrema, l’atrocità della violenza, le stragi e l’orrore, che devono essere raccontati per essere conosciuti da chi non li ha vissuti, il sacrificio dei nostri eroi che non saranno mai dimenticati”. Le chiedo: dinnanzi la terribile guerra aperta di quel periodo della storia, tragico e orrendo, lei quale testimone di quel tempo, cosa pensa si poteva fare e cosa non è stato fatto?
Beh, allora si fece molto per evitare che passasse il disegno eversivo e la democrazia fu salva: ciò che non riuscì pienamente fu di far capire che quelle vicende non erano un fenomeno locale, legato alla solita Sicilia mafiosa, al bozzetto che rassicurava il resto del Paese dai timori del contagio. Questo limite è all’origine delle difficoltà attuali e dello spegnersi, a livello nazionale e forse anche internazionale, di un impegno antimafia come priorità di qualsiasi programma di governo.
Nel suo romanzo lei racconta dell’aspra e tormentata battaglia giudiziaria condotta dagli eredi Tagliavia, famiglia d’illustre tradizione marittima, per affermare il sacrosanto diritto su un patrimonio che ritenete usurpato. Nel racconto emerge tanta amarezza, dolore, sofferenza per l’ingiustizia subita. Numerosi i personaggi dell’epoca coinvolti nella vicenda dell’eredità dei Tagliavia tra cui Michele Greco, detto «il Papa», suo fratello Salvatore, detto «il Senatore», che risulteranno essere ai vertici di Cosa nostra negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Complesso il rapporto con i fratelli Gioia, di cui uno era il legale incaricato di tutelare gli interessi del Conte Salvatore Tagliavia e dei suoi eredi. E’ grazie all’arma della legge e alla fiducia nella verità e nello Stato, che gli eredi Tagliavia provano a contrastare la prepotenza criminale di Cosa nostra e dei boss Michele e Salvatore Greco. Nel racconto emerge tanta amarezza, dolore, sofferenza per il dissolvimento di un patrimonio. Le chiedo: a distanza di tanti anni, giustizia è stata fatta?
Dal mio punto di vista no e sottolineo che la mia valutazione ha tutta la parzialità di un punto di vista personale. Ci sono aspetti nel comportamento della magistratura che lasciano perplessi e danno la sensazione di un inquietante ambiguità, di nodi non sciolti né in un senso né in un altro. Questa ambiguità ho provato a riassumerla in un dialogo-sogno che rimanda a scenari ben più gravi e grandi di una controversia su “la roba” o su beghe familiari. Qui la roba è probabilmente finita nel tritacarne della guerra fredda il cui fronte passava per l’Italia e in modo particolare su Palermo e la Sicilia, importantissimo avamposto nel Mediterraneo. Solo questo può spiegare certi comportamenti, certe ambiguità certi silenzi. Quel clima e quelle vicende hanno lasciato in tutto il paese diverse vicende, ben più gravi di quelle del patrimonio Tagliavia, senza che giustizia fosse fatta. A Palermo ciò che è successo non ha paragoni (una intera classe dirigente decapitata, oltre mille morti ammazzati) e, mentre ancora si stenta a rendersene conto, l’ombra di quei misfatti pesa ancora oggi su comportamenti politici e collettivi. Non è un caso se dopo anni, vediamo riproporsi nel tessuto della società rapporti con la mafia come unica possibile via di soluzione dei problemi di ogni giorno. No, giustizia non è stata ben fatta e la battaglia continua.
Lei scrive : “Eppure si trattava di un patrimonio che al momento della morte del conte Salvatore Tagliavia ammontava a oltre 150 miliardi di lire tra beni immobili e mobili. Volatilizzatisi questi ultimi (quasi la metà dell’intero ammontare), nel 1992 una perizia giurata valutò i soli immobili (67 appartamenti, 36 magazzini, 1 edificio, 1 scantinato, 2 aree edificabili, 14 fondi rustici e 2 cortili interni) equivalenti a 83 miliardi e 453 milioni di lire. Non era una cifra banale per Palermo anche se i tempi ci stavano abituando a movimenti finanziari nel mondo di ben altra dimensione e natura” . “La mafia non ha vinto”, sostengono gli autori del saggio Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo nel loro libro, lei cosa ne pensa?
I titoli dei libri esprimono le intenzioni degli autori. Anni fa scrissi un libro dal titolo “Mai più terra dei silenzi” (ed. Istituto Poligrafico Europeo) e da allora (2010) il silenzio della politica siciliana non poteva essere più assordante. Così ho preferito titolare il mio racconto con un asettico “I mandarini di Ciaculli” che sembra identificare solo un luogo significativo per la nostra storia mentre, al contempo, ricorda quei funzionari civili e militari di un impero lontano e imperscrutabile come quello cinese, …e i mandarini si riproducono ancora, nella doppia valenza di significato.