Scritto da : Michelangelo Ingrassia
Il 20 febbraio di ogni anno ricorre la “Giornata Mondiale della Giustizia Sociale”, indetta dall’ONU per promuovere il tema della giustizia sociale nel mondo. Le celebrazioni iniziarono nel 2009 e da allora ogni Nazione promuove iniziative e momenti d’incontro per individuare strumenti politici, sociali, economici, culturali, in grado di sostenere gli sforzi della comunità internazionale nella lotta contro le ingiustizie sociali. Ammettiamolo pure: non sempre e non tutte le Nazioni hanno dedicato risorse economiche, sociali, politiche, culturali nella lotta per l’affermazione della giustizia sociale. Del resto il sistema di vita nel quale viviamo è incompatibile con la giustizia sociale, che non è soltanto un valore in sé, un’idea, un principio; la giustizia sociale è anche un progetto, è un modello economico, politico culturale, sociale. La giustizia sociale, insomma, non è un metodo ma un fine cui dovrebbe tendere l’umanità. Qual è questo fine? Quello di garantire all’umanità una distribuzione equa di tutti i beni del Creato. Finché questo non sarà possibile, non si potrà parlare di società fondata sulla giustizia sociale ma sull’ingiustizia sociale, che sarà più o meno intensa nelle varie parti del mondo. Nel nostro tempo, la correlazione tra beni del creato (che in lingua capitalistica si definisce “risorsa” o “ricchezza”) e umanità è notevolmente e forse definitivamente saltata rispetto al periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, giustamente definito dalla storiografia come “il trentennio glorioso” proprio perché la distribuzione dei beni raggiunse un discreto grado di equità, mai raggiunto prima e anche dopo di allora. Oggi più che mai, infatti, la scarsità delle risorse disponibili nel mondo e la sperequazione nella distribuzione della ricchezza a danno delle classi popolari hanno raggiunto un livello bassissimo e critico, pericolosamente ai limiti dell’irreversibile; naturalmente se non si cambiano stile e modo di vivere.Leggendo gli ultimi dati disponibili sulle prospettive occupazionali e sociali nel mondo, elaborati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 2019, vediamo una realtà gravissima e gravida d’ingiustizia sociale. Nel mondo lavorano sempre meno donne (48% della forza lavoro). Avere un lavoro non sempre garantisce una vita dignitosa: bassi salari, bassa protezione sociale, pochi diritti in quelle che sono definite attività di sussistenza e considerati “lavori informali”: coadiuvanti familiari, rider, operatori di call center, precari. Ma anche nel campo dei lavori formali si registra una sperequazione di genere, di salario, di diritti, di tutela sociale che colpisce qualifiche e mansioni di basso o iniziale profilo; e stendiamo un velo pietoso sulla piaga del lavoro nero. Nel mondo circolano ancora oggi 172 milioni di disoccupati; altri 140 milioni di persone sono prigioniere nella manodopera sottoutilizzata; la maggior parte dei 3,3 miliardi di lavoratori nel mondo, sperimenta quotidianamente cosa significhi carenza di benessere materiale, mancanza di sicurezza economica, assenza di pari opportunità, impossibilità di sviluppo umano. Sono dati che non solo riflettono una condizione ma anche confermano una situazione: il fatto, cioè, che il grado e il carattere delle problematiche evidenziate è universale; riguarda cioè tutti i paesi e tutte le regioni del mondo. Cambiano di poco le percentuali, verso l’alto o verso il basso, in forma più grave nel sud del pianeta, ma a Palermo, in Sicilia, in Italia siamo parte di un tutto. Un tutto che campa sulle ingiustizie sociali. E il fatto ancora più grave è che i circuiti intellettuali e i movimenti culturali ritengono questa situazione irreversibile: la storia, insomma, finisce qui e così. Ovviamente ci si riferisce a quei circoli intellettuali e culturali finanziati dall’elite che detiene nelle proprie mani la stragrande maggioranza delle ricchezze del pianeta, interessata a mantenere l’ordine delle cose così com’è costituito. Eppure questa situazione non corrisponde ai principi economici, etici e sociali sanciti, per esempio, dalla nostra Carta Costituzionale, laddove è tracciato un progetto di convivenza impostato proprio sulla giustizia sociale. Articoli costituzionali che fissano diritti e doveri e che provengono non solo dall’astratto e freddo mondo delle teorie ma anche dalla movimentata esperienza storica. Nella seconda metà del Diciannovesimo secolo, infatti, quando il grado di giustizia sociale raggiunse livelli tanto bassi quanto quelli di oggi, gli uomini e le donne vittime dell’ingiustizia sociale reagirono, si unirono, fondarono delle Società di Mutuo Soccorso e all’interno di questi sodalizi sperimentarono la convivenza fondata sulla giustizia sociale. Versavano ciascuno una piccola quota tratta dai pochi soldi che riuscivano saltuariamente a mettere in tasca quando lavoravano; eleggevano a suffragio universale il direttivo e il presidente del sodalizio; utilizzavano il fondo cassa per assistere chi dei soci perdeva il lavoro, chi si assentava per malattia o infortunio, chi moriva per garantirgli una degna sepoltura, chi aveva bisogno di cure mediche. Si riunivano per imparare a leggere e scrivere, per assistere a piccoli spettacoli e opere teatrali e musicali, per divertirsi, grazie al mutuo appoggio di insegnanti, scrittori, attori, musicisti, artisti. Fu questa straordinaria esperienza a colmare la mancanza di quella giustizia sociale che lo Stato e la società del tempo negavano; fu così che si praticarono i valori della solidarietà, della partecipazione, della giusta distribuzione dei beni comuni a ciascuno secondo il proprio bisogno attuando così una vera e propria liberazione dal bisogno. Da questa esperienza vennero fuori artisti, sindacalisti, lavoratori e lavoratrici; venne fuori una umanità autodidatta che fu protagonista di una stagione di semina della giustizia sociale il cui raccolto fu costituito dalle prime forme di legislazione sociale che nel tempo si perfezionò e amplio fino ad incidere positivamente in quella correlazione tra beni del creato e umanità fondata sull’equità sociale. Certamente non si arrivò all’equità perfetta ma su quella tendenza fiorirono gli articoli della nostra Costituzione e quello “Spirito del 1945” che segnò “il trentennio glorioso”. Tutto questo fu smantellato dal ritorno, in forme moderne, della vecchia cultura della competizione, della lotta per l’esistenza, di quel darwinismo sociale oggi praticato e diffuso. Quale lezione trarre da tutto questo? Per attuare la giustizia sociale nel mondo, per pervenire ad un’equa distribuzione dei beni del creato, non basta elaborare progetti come il famoso (e dimenticato) “ Obiettivo 8 dell’Agenzia 2030 delle Nazioni Unite ” che invita le Nazioni a “ promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva, sostenibile, una piena occupazione produttiva e il lavoro dignitoso per tutti ”. Non basta anche perché le Nazioni sono fortemente in ritardo sulla realizzazione di questo obiettivo, come segnala con rammarico l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Occorre fare come i nostri avi nell’Ottocento: realizzare una nuova vita. Come recita il cantautore Franco Battiato in una celebre canzone: “ Non servono più eccitanti o ideologie, Ci vuole un’altra vita”.
Prof.re Michelangelo Ingrassia è docente di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Palermo e Direttore del Centro Documentazione e Studi Gaetano Pensabene. E’ componente, già Presidente, del Comitato Consultivo
Provinciale Inail di Palermo.