Scritto da : Giovanna Pia Ferrara
L’approccio alla Concuranza (Alvisi,2022) non può che partire dal contesto in cui oggi vive l’umanità. L’attuale dimensione universale, planetaria e quotidiana della vita dell’uomo è caratterizzata dall’incertezza per il presente e futuro causata dalle crisi strutturali dell’economia e dal proliferare di mortiferi conflitti locali, d’area, continentali, etnici, religiosi e potenzialmente mondiali. Oggi per la maggior parte della popolazione del pianeta il futuro è oscuro, incerto, privo di prospettive migliorative. La noncuranza del super IO ha generato povertà, diseguaglianze profonde tra una minoranza sempre più esigua che detiene pressoché tutte le risorse materiali e immateriali del pianeta e la vastissima maggioranza che ne è privata e, in certe aree del mondo, muore letteralmente di fame, di guerra, in altre sopravvive a malapena, in altre ancora vive povertà di ogni tipo. Se si aggiunge poi la preoccupazione per il futuro dell’ambiente, che il dissennato sviluppo dell’umanità ha contaminato, distruggendo territori, inquinando mari in modo forse irreversibile, all’incertezza si accompagna l’angoscia del vivere nell’incombere di un disastro naturale di cui gli eventi attuali, inattesi in natura, sono la testimonianza più evidente.
La nostra redazione, in occasione di un importante evento d’arte, promosso dalla Chiesa degli Artisti e dal suo rettore apostolico e presidente della Pontificia Accademia di Teologia S.E.R. Antonio Staglianò, vescovo emerito della magnifica e barocca Noto, ha intervistato il Prof. Mauro Alvisi, accademico pontificio, interlocutore referente della Pontificia Accademia e supervisore scientifico del progetto Pop Peace of Art, la Grande Opera della Pace, a cura di Simona Brusa, già Art Advisor della reale collezione museale di Buckingham Palace a Londra.
D. Prof Alvisi, lei di recente ha presentato, con successo, al Salone del Libro di
Torino Scongiurare l’abisso-Breviario della Concuranza. Questo senso di precarietà
e deriva apocalittica è nella pelle di noi tutti?
R. Questo contesto estremante problematico, illuminato dai sinistri bagliori di un futuro catastrofico ci riguarda da vicino, ha generato anche la frammentazione e disgregazione dei rapporti umani. La vita umana appare, e di fatto è, caratterizzata da atteggiamenti individualisti, egoistici, causati dalla voglia di potere in ogni settore della vita, che portano alla sopraffazione a ogni costo dell’altro, inteso come nemico. In un contesto simile, per chi intenda contrastare la tendenza autodistruttiva dell’uomo, l’interrogativo che occorre porsi riguarda quale possa essere il futuro dell’umanità, che ormai si trova davanti a un bivio epocale: perseverare in un percorso che alla fine si rivelerà privo di ogni futuro per tutto il genere umano, oppure individuare alternative efficaci per creare un sistema che abbia al centro di ogni attività umana l’uomo, l’essere vivente a cui, come ricordava costantemente Papa Francesco, è stato affidato il pianeta non per distruggerlo, per soddisfare le proprie brame egoistiche, ma per custodirlo e farlo evolvere nella prosperità di tutti gli abitanti della Terra.
D. La scienza, la teologia, l’insegnamento cristico, l’arte e la cultura sono in grado
di costruire un ponte salvifico concreto per l’umanità?
R. In forza delle prove di studio ed empiriche, sono convinto sia possibile. Infatti, nella nuova dimensione del rapporto tra uomini, si sviluppa la possibilità di creare quell’intelligenza collettiva e connettiva capace di analizzare i problemi ed escogitare soluzioni strutturali e innovative che abbiano come elemento centrale il benessere di tutti, proiettati in un sistema di relazioni interumane dove si costruisce insieme perché tutto sia a favore dell’umanità. Il processo dinamico del sistema economico, sociale e culturale concurante è agevolato e garantito dalla condivisione di valori che, a partire dal primigenio rapporto concurante tra singoli individui, sviluppi un sistema valoriale di riferimento che leghi tra loro gli uomini senza creare disuguaglianze e sopraffazioni di singoli o di gruppi forti nei confronti dei deboli. Il passaggio successivo consiste nel creare un ecosistema che garantisca a tutti non solo di poter soddisfare i propri bisogni, ma anche di poter realizzare i propri progetti di vita per sviluppare la propria personalità tenendo conto dei propri talenti, capacità, conoscenze, competenze, esperienze. In questo meccanismo rifondativo dell’umanesimo che è la concuranza, le arti e i mestieri creativi giocano un ruolo determinante nel promuovere e produrre la bellezza, la sublime rappresentazione del divino che connota, nel profondo euforico, ogni umano agire nell’interesse collettivo cooperante. Ovvero l’intelligenza sociale delle arti. La concuranza non è semplicemente rispettare l’altro, ma cercare con l’altro un comune glorioso destino. Creando sogni, rendendo le idee progetti sostenibili per e dalla comunità, trasformandole in soluzioni e a seguire realizzare ciò che per altri sembrerebbe impossibile. Per cui chi non è concurante non potrà mai rendere possibile un sogno.
D. Lei spesso introduce, nelle sue molteplici incursioni pubbliche, il concetto di entropia sociale della concuranza, quasi ne fosse il volano. Ce ne vuole parlare?
R.La concuranza è multiforme e ciascuno di noi, al pari di un artista che plasma la materia per trasferire emozioni, ne diventa parte attiva e attivante. Siamo tutti strumenti dell’entropia sociale, anche nelle relazioni cooperanti. Il sistema win – win non è altro allora che la propagazione di un sistema concurante dove il modo più facile, efficiente ed efficace per compiere più lavoro è fare copie di un IO consapevole concurante, copia di un sé evoluto. Noi tutti siamo il risultato inevitabile delle leggi che fondano l’entropia, soltanto che di questo straordinario carburante ci serviamo nell’unico modo inefficace, che è quello di utilizzarlo in una nano particella, socio-limitata e limitante, chiamata IO. La diplomazia egotica si è dimostrata inefficace a risolvere i problemi che un pianeta sempre più complesso presenta in termini di bene allargato alla collettività. ONU,G8, G20, Organismi mondiali del Clima, Unione Europea, Governi Nazionali non hanno alcuna risposta di concuranza. Un esempio per tutti è il tema della pace. Il pensiero “Politically Correct” si occupa di Peace Keeping, ovvero di un paradosso in termini, il Mantenere la Pace, dove ogni giorno scoppiano focolai di guerra e conflitti locali ed estesi. Una pseudo-cura che nasconde una vera incuria per quello che dovrebbe essere l’unico vero obiettivo concurante: il Peace Making, ovvero il costruire la pace, giorno per giorno in una rete condivisa di azioni a bene aggiunto. Il tempo dei cigni neri con le sue apocalittiche catastrofi incombe su di noi. E’ giunto il tempo di scongiurare l’abisso. La stessa sopravvivenza della specie umana è messa in discussione in assenza di un vero cambiamento di rotta. Manca la coscienza di vivere in una società reticolare e interconnessa, con un destino universale comune. Occorre pensare che promuovere, arricchire la scatola dei più bei giochi dell’uomo come l’arte, la cultura, l’istruzione, la ricerca scientifica, la cura delle emergenze socio economiche, la valorizzazione dei talenti, delle eccellenze possa costituire il seme fecondo di nuovi rigeneranti cigni bianchi. Per tutto questo gli ingredienti capaci di far rinascere gli interessi o la delicatezza dei pensieri più attenti e concuranti saranno svariati.
D. Quanto possono incidere l’arte e la cultura per una intelligenza connettiva?
R.La delicatezza dell’arte con i suoi colori e le sue interpretazioni, il suono di una musica soave interpretata da anima e cuore. L’esistenza più grandiosa dell’essere umano è generata dalle virtù. Lo sfruttamento di beni comuni, lo squilibrio di ricchezze, l’inquinamento culturale, le azioni belliche in violazione della dignità universale, sono veri e propri delitti compiuti contro le generazioni di domani, e costituiscono, nell’oggi, una violenza che comprime i fondamentali diritti della persona. Oggi è necessario un significativo impegno nella formazione specialistica e nelle dinamiche di orientamento sulle opportunità offerte dalla diplomazia delle arti e della cultura. Si attiva, alla neutralità convocante, alla ricerca di nuove formule di policy di prevenzione e risoluzione delle controversie che fa emergere, di conseguenza, la proposta di nuovi percorsi culturali, la via della cultura mediterranea, finalizzata a riavviare il senso di una responsabilità sociale internazionale a vantaggio dello sviluppo autentico della polis. Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali, includendo tutti, senza compromettere le generazioni future. Concuranza non è semplicemente rispettare l’altro, ma cercare con l’altro un comune destino che può mostrare momenti di esaltante gloria quando si condividono passioni e attenzione verso il prossimo. Il motto di Giorgio La Pira (il sindaco di Firenze, 1951-1957), poi dichiarato “venerabile” da papa Francesco) spes contra spem (sperare contro ogni speranza) è quanto serve all’umanità, in questo momento: osare il non osabile, seguendo soprattutto il buonsenso. Quanto sarebbe più gratificante se ogni giorno ci alzassimo chiedendoci tutti chi possiamo aiutare e in che modo, invece di limitare il nostro cielo a perseguitare e danneggiare qualcuno, ricavandone perfino notorietà e copertura, mediatica.
D. Lei sfida l’umanità a scegliere la via stretta. Ma è vincente?
R.È questa audacia euforica il tipico condursi al mondo della futura possibile generazione dei leader empatici, dei perdenti vincenti. E’ questo che ha mosso undici diversi e poliedrici artisti, d’ambo i sessi, a lavorare lungamente intorno alla Grande Opera della Pace battezzata poi Pop Peace of Art. Un colossal pittorico di dieci metri di lunghezza per tre metri di altezza. Quasi una rappresentazione caleidoscopica del genio differente della pittura contemporanea, un gioco di pennellate connesse, a rincorrere una variegata memetica della pace. Un’annunciazione semantica di una nuova epoca di pace possibile. La celebrazione della sacralità divina e laica del fare arte. Del farlo insieme. Come atto d’intelligenza sociale, collettiva e cooperante. Di concuranza per la pace. Un’opera che è stata inaugurata ed esposta nella iconica e famosissima Chiesa degli Artisti, in Piazza del Popolo a Roma, Giovedì 29 Maggio alle ore 12.00, poi esposta e aperta alle visite fino al 21 Giugno, con il Patrocinio della Pontificia Accademia di Teologia della Santa Sede, alla presenza del suo Presidente S.E.R. Antonio Staglianò. L’epifania di una Pop Leadership. Quella di coloro che investiti di un ruolo pubblico universale, simbolico e iconico, con responsabilità su milioni e miliardi di individui, scelgono di essere con il popolo, giudicati dal popolo, amati o odiati ma sempre in mezzo alla gente e cittadini del mondo. Perseguendo interessi collettivi, come pares inter pares, promuovendo il nuovo paradigma dell’intelligenza sociale: la Concuranza. Fra tutti gli antesignani e precursori illustri inconsapevoli del nuovo paradigma della Concuranza, ma che sulla Concura hanno basato il loro impegno di vita, si può ascrivere a pieno titolo Papa Francesco, il Papa venuto da lontano. Un esempio mirabile di Concuranza apostolica, pensata e agita. Ora più che mai destinata a rivolgere il suo sguardo di pace in un mondo in conflitto esteso. E non a caso la pace sia con tutti voi, il saluto del Cristo risorto, sono state le prime parole del nuovo Pontefice Leone XIV, Papa Prevost, nel suo primo affaccio da San Pietro.
“Tutti noi sentiamo il desiderio di esprimere qualcosa sulla precarietà, agiamo nella direzione comune di sensazioni di incertezza e di instabilità su ciò che riguarda il mondo, l’ambiente, il progresso, la ricerca della pace” (FFV). Con queste parole, Fabio Ferrone Viola motiva la genesi di “Pop Peace of Art”, grandiosa opera collettiva realizzata insieme a dieci artisti appartenenti al Silver Studio Art Factory, laboratorio creativo ideato dallo stesso Ferrone – mente propulsiva del gruppo e già inserito nella corrente della “Junk Art” – con l’obiettivo di sperimentare e promuovere nuovi progetti attraverso la mescolanza di stili e materiali diversi, anche di riuso, ma sempre nell’ottica di un’arte legata alla sostenibilità e al rispetto per l’ambiente. Maturata dopo lo sconvolgimento interiore vissuto dall’ artista in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, “Pop Peace of Art” vede coinvolti, nella realizzazione, oltre a Ferrone, la pittrice e scultrice Cristiana Pedersoli, figlia del grande Carlo, per tutti Bud Spencer, tre nomi rappresentativi della corrente Neo-Pop quali il siciliano Biagio Castilletti e i romani Luigi Folliero e Daniele Meli Salvadori (in arte Book), Irem Incedayi, di origini turche, figlia del celebrato Timur K. Incedayi, firmatario della corrente artistica “Il Metropolismo”, il pop/street artist Pennyboy (all’anagrafe Emanuele Pennazza), il pittore e scultore (nomen omen…) Michelangelo Valenti, l’artista in “viaggio” Valentina Mori, la pittrice figurativa Valeria Magini e l’alchimista della materia Micaela Legnaioli. Mossi dal desiderio di farsi promotori di un cambiamento radicale delle coscienze e profondamente convinti che solo dal confronto e dalla sinergia possa innalzarsi un grido adeguato e potente nel frastuono della guerra, si riuniscono a luglio 2022, iniziando a dipingere la monumentale tela (10 metri di lunghezza per 3 metri di altezza), montata su due telai di legno da cinque metri ciascuno, realizzati con pannelli in compensato e travi unite a croce. Nel solco delle imponenti opere di condanna della follia della guerra quali “Guernica” di Picasso e il “Grand tableau antifasciste collectif” ideato da Jean- Jacques Lebel insieme ad altri artisti nel 1960, ma costruita attraverso l’improvvisazione di una jam session di stampo jazzistico dove ogni artista dialoga, attraverso il proprio strumento, con ciascuno degli altri, “Pop Peace of Art” si presenta come un muro dilaniato dai bombardamenti bellici lungo il quale si dipanano, a volte si sovrappongono, visioni, orrori e speranze partorite dalle menti creativi dei singoli artisti, senza alcuna soluzione di continuità visiva e morale. “Ciascuno di noi – commenta lo stesso Ferrone – interviene sull’opera con il suo proprio stile, così che non si evidenzia un’unica mano creativa ma la fusione di più mani, ognuna delle quali perfettamente riconoscibile” (FFV). Ma il dialogo non è solo tra gli artisti, esso è principalmente finalizzato al coinvolgimento dell’osservatore che viene sollecitato a divenire parte attiva nella creazione di un canale comunicativo in grado di orientare la propria coscienza. Il gigantismo stesso dell’opera, l’enorme estensione orizzontale della tela, definisce infatti uno spazio che si eleva a portatore di valori politici e di una complessa visione del mondo, allo stesso tempo così tragica ma eroica, così orrorifica ma non priva di speranza, che il pubblico non può rimanerne indifferente. Opera-manifesto per eccellenza, “Pop Peace of Art” seduce lo spettatore, attirandone lo sguardo nel naturale senso di lettura sinistra-destra, attraverso la leggiadra mongolfiera di Biagio Castilletti che lo trasporta idealmente nella tela, all’interno del campo di battaglia, sorvolando il muro devastato, il “recinto”, oltre il quale e dentro il quale l’orrore della guerra non permette più un racconto fluido, prospettico e naturalistico del mondo, ma impone, per la violenza estrema dell’evento bellico, una visione multipla e simultanea, un accumulo di situazioni, luoghi e momenti diversi, che vengono sovrapposti, “ammassati”, come detriti di un’esplosione, in una innaturale contemporaneità spazio-temporale. Leggera, in volo sul terreno devastato dalla guerra, la mongolfiera è il primo messaggio di speranza, campeggiando, sul suo pallone aerostatico, la “World Peace Flag”, la mappa del nostro pianeta realizzata con i diversi colori della bandiera della pace. Come afferma lo stesso Castilletti “la mongolfiera simboleggia la libertà di intraprendere le vie del bene comune e lasciare cadere le zavorre di odio per librarsi verso mondi pacifici. Le farfalle che ne accompagnano il volo rappresentano la trasformazione, il cambiamento che necessita per raggiungere società libere dal male, di cui la cultura, raffigurata nel libro con le scritte Pace in varie lingue del mondo, è il ponte verso l’apertura, la conoscenza e l’accettazione del prossimo”. Questo sogno utopico, il riesame delle regole sociali, politiche e culturali come mezzo per svincolarsi dalle rigide ed ingiuste norme del passato, illumina la corsa della bambina vestita d’azzurro che appare quasi fosse un miraggio, “Il sogno” di Valeria Magini, il racconto favolistico di un mondo che viene rappresentato e percepito in modo puro e naturale, senza sovrastrutture. Realizzata con pastelli a olio e acrilico, l’immagine della ragazzina che cammina sul prato abbandonando lungo la strada i suoi giochi, attratta dal luccichio del metallo della pistola che ora regge tra le mani insieme ad un fiore, è l’emblema dello stupore dei bambini che non conoscono violenza e cattiveria. Nell’immagine, come racconta l’artista, “c’è il mio desiderio di portare in primo piano quel momento di vita che abbiamo tutti vissuto, in cui non si sono ancora insinuati i significati della malizia e della mostruosità umana. C’è il bisogno di provare ad ascoltare davvero le emozioni che abbiamo dentro, per non rimanere impassibili di fronte alla vita; c’è la necessità di capire che amare è un atto di coraggio e c’è il dovere di custodire quello che si ha, perché il presente è un istante che rimane tale solo per un momento. È un’ingiustizia privare il prossimo della possibilità di fare queste scelte e continuare così ad amare. È vergognoso limitarsi ad accettare quel che accade, perché dal mio punto di vista va compreso che la vita invece avviene. Sento l’urgenza di condividere lo sconforto della mia fantasia”. La fantasia di godere delle possibilità di un mondo giusto e libero, dato dal massimo grado di valorizzazione dell’individuo e della collettività, dove si possa crescere in modo sereno, in una società che sappia tutelare i diritti inalienabili e rendere sano l’ambiente, in cui i bambini possano sperare di diventare grandi, rimanere in salute e vivere in un contesto in cui, tra le certezze primarie, non vi siano violenza e orrore ma solo gli affetti e il bello che li circonda, si infrange drammaticamente e dialetticamente sul carro armato di Fabio Ferrone Viola. Realizzato con il suo tipico stile ispirato al riuso dei materiali di scarto, con tappi di alluminio e tavole di legno, “Il carro armato della pace” sovverte però l’immaginario dello spettatore associato a questo cingolato: circondato da scritte in lingua russa che recitano “la guerra non è mai una buona idea”, il mezzo militare simbolo per eccellenza del conflitto in corso viene interpretato e sdrammatizzato con tonalità accese e primarie, lontanissime dai tipici colori militari. In continuità con lo stile del carro armato egli aggiunge anche un piccolo elicottero, realizzato con dei bottoni di scarto. A rendere ancora più evidente lo scarto percettivo ed il ribaltamento del significato, il coloratissimo carro armato sembra apparentemente condotto da “La Libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix nella personale reinterpretazione di Daniele Meli Salvadori, dove la figura simbolica della donna al centro – la Libertà del mondo, unito in lotta contro l’oppressore russo – è privata, così come il bambino che le sta accanto, delle armi, “inserendo al loro posto un ombrello simbolico per lei, con l’intento di dare e ricevere protezione, e i libri tra le mani del bambino, per far ricordare che la cultura può essere un messaggio di speranza, e che dovrebbe far ragionare, ancor prima dei fatti, sulle disastrose conseguenze che la guerra comporta” (Daniele Meli Salvadori). Con la propria forza dirompente il pacifico carro armato sfonda il muro dell’orrore, il “recinto” su cui sorvolava la tenera mongolfiera di Castilletti, lasciandone in piedi solo alcuni tratti, diroccati, a futura memoria: su di essi Luigi Folliero incide, attraverso la tecnica dello stencil, graffiti raffiguranti matriosche, simbolo della Madre Russia ed elemento iconico della sua cultura popolare. Effigiata sul frammento centrale campeggia la figura del presidente Vladimir Putin che, con un balzo repentino, fuoriesce da una matriosca e sconfina metaforicamente in Ucraina i cui colori della bandiera, “giallo e blu”, sono proprio quelli scelti per la rappresentazione. Se il salto riuscisse, il presidente russo atterrerebbe sullo stesso soffice prato fiorito schiacciato dal cingolato di Ferrone e solcato più soavemente dalla bambina della Magini, l’immaginario giardino dell’Eden ideato da Micaela Legnaioli come setting dell’intera opera. Attraverso una rappresentazione di rara sensibilità e romanticismo, la base dell’enorme tela restituisce agli occhi dello spettatore il classico giardino incantato delle favole, una terra estremamente ospitale ma sconosciuta, sospesa a metà tra realtà e fantasia, dove è possibile trovare rifugio dagli orrori della vita, ed in particolare della guerra, “un mondo poetico di fantasia nel quale la mente evade nei momenti in cui ha bisogno di serenità e di tranquillità. Questo luogo poetico, popolato di fiori, racchiude il valore simbolico di un momento importante di riconquista dell’amore e dell’amicizia” (Micaela Legnaioli). Ed è su questo tappeto verde affascinante e irreale, in questo giardino delle delizie che si stendono lascivi i due amanti immaginati da Michelangelo Valenti perché, oltrepassato il brandello di muro celebrativo della muscolarità distruttiva (ma sconfitta) di Putin, è necessario cambiare narrativa, rimettere al centro le persone e riaccendere la speranza attraverso la potenza esplosiva dell’amore. L’occhio coglie infatti i colori monocromatici del nucleo centrale come segno di una forte discontinuità visiva rispetto alla narrazione sinora utilizzata, non potendo sottrarsi, almeno inconsciamente, a legare tra loro, con un filo invisibile, i tre contributi artistici successivi. I due amanti di Valenti si abbandonano ad un bacio appassionato, un gesto che li distacca dalla cruda realtà, rappresentati da una netta monocromia, una semplicità visiva pari al loro gesto d’amore che vince la paura della guerra; una Vittoria che irrompe anche dal cielo sotto forma di figura alata, anch’essa monocromatica, recante con sé un nastro con la scritta “The big peace of art”, perché, come ricorda l’autore stesso, questa opera “grida la futilità della guerra dove la pace è l’unica vera vittoria”. I due amanti monocromatici risplendono del pallore lunare emanato dal nostro satellite così come immaginato da Valentina Mori perché da una parte “È come se tristemente la luna riflettesse gli orrori della guerra”, dall’altra i due amanti “nonostante questo cielo di piombo e di orrore, si amano sotto i raggi lunari” (Valentina Mori), filtrati a loro volta dai rami dell’albero sotto cui i due trovano riparo. Realizzato da Cristiana Pedersoli, “L’albero della pace” rappresenta, come racconta l’artista, “l’unione tra la terra e il cielo dove l’uomo, con le sue azioni d’amore, si eleva…… con i suoi rami abbraccia la nostra esistenza che si nutre dalla terra e diventa messaggero per elevarci verso l’alto e trasportarci verso l’amore”. Dalle ceneri della distruzione non si potrà che rinascere: l’albero della Pedersoli ha “rami che ora sembrano spogli ed ormai morti” ma “la pace ha radici profonde” e queste non possono essere recise dalla malvagità della guerra, per quanto profonda e devastante. “Solo nella pace l’uomo può creare il vero progresso” e prima o poi “questo sboccia” e di conseguenza “i frutti ed i fiori della fratellanza fra i popoli e la loro collaborazione renderanno il mondo migliore” (Cristiana Pedersoli). Se ricostruire richiede partecipazione, la condivisione delle radici, della memoria e della cultura sono l’unico modo di elaborare il trauma e superarlo nel corpo sociale, auspicando che germoglino i nuovi frutti della pace. Le colombe di Irem Incedayi, presenti in molte tradizioni spirituali a simboleggiare la serenità, la speranza e la rinascita, divengono pertanto i simboli universali atti a promuovere l’armonia e la comprensione tra i diversi popoli e le differenti religioni del mondo, scavalcando le barriere linguistiche e culturali. Ma poiché, come afferma lei stessa “Il dialogo, inteso come ascolto empatico e rispetto delle opinioni altrui, è un elemento chiave per superare le differenze e trovare soluzioni pacifiche ai conflitti”, Incedayi inserisce anche un’antenna parabolica satellitare nella parte alta destra della grande tela, focalizzando provocatoriamente l’attenzione sulla necessità, anche tecnologicamente supportata, di connessione e scambio reciproco tra gli individui. Questo senso di pace ed armonia, favorito dall’adagiarsi dei vari “momenti” sul tappeto erboso dell’immaginario giardino dell’Eden, si interrompe però con un brusco ritorno alla realtà: il verde si ferma e la sua armonia viene frantumata dal lastricato di “Big Peace of Art – Girl with lollipop and rifle” del pop-artist Pennyboy. E’ un hard landing: visivamente l’osservatore subisce uno shock, dovendo misurarsi ex novo con la forza distruttrice dell’uomo che con le sue attività è riuscito, attraverso modifiche territoriali, strutturali e climatiche, ad incidere sui processi geologici. La pavimentazione, frutto del lavoro umano, impatta sul giardino dell’infanzia, spezzandone il naturale processo di crescita e sviluppo, tanto del prato quando del bambino. Non c’è più spazio per i giochi, il mondo fatato è un ricordo, se è mai esistito. L’istantanea della bambina che posa con il fucile mentre mangia un lecca-lecca, divenuta virale sui social, ispira il lavoro dell’artista che prende spunto da essa per accendere un riflettore sui protagonisti e sulle conseguenze delle dinamiche belliche, rappresentate spietatamente con il distonico dualismo, fucile e lecca-lecca, nelle mani di un bambino. “Il potere trasforma il popolo in palle da cannone per alimentare le proprie guerre, per nutrire i propri effimeri bisogni politico-religiosi di appartenenza territoriale. Il governo dona al popolo il fardello della propria avidità, rendendolo così protagonista di un film mai voluto. Il fucile rappresenta il fardello da cui nessuno è esente, bambini inclusi, e la consuetudine del suo utilizzo diventa pari alla consuetudine di mangiare un lecca-lecca, con la stessa facilità con cui le mani possono alternarli entrambi” (Pennyboy). La scena della bambina viene quindi sovrapposta ad un muro di graffiti dove celebrare l’esplosione del colore, piuttosto che quella di un proiettile, in una esaltazione del degrado della materia, delle forme, dell’uomo che comporta anche un’inevitabile de-naturalizzazione dei bambini. In sostanza, come dichiara l’artista, “La guerra come Anti-vita”. Ancora una volta, il muro. Il muro di graffiti come leitmotiv della tela e dell’intera concezione visiva dell’opera. Il muro come citazione dei tanti muri che hanno fatto la storia: la parte superstite del muro di Berlino, quello di John Lennon a Praga, i muri del pianto sparsi per il mondo ecc. Il muro come luogo eletto della parola, spazio dialogico dove manifestare i propri princìpi ed incidere i simboli della pace e dell’amore. Il muro come gigantesca tela dalle dimensioni di una parete: qui il Silver Studio Art Factory ha desiderato lasciare testimonianza artistica del proprio dissenso e orrore nei confronti della guerra, qui ha inteso esprimere i propri sentimenti di vicinanza a chi ne è stato colpito, qui ha voluto innalzare il proprio grido di speranza per un futuro migliore. Se “La bellezza salverà il mondo”, gli artisti creatori di “Pop Peace of Art” ne saranno gli alfieri perché propugnano la cultura, che in sé presuppone bellezza, come unica arma contro il progressivo decadimento della civiltà e la prevaricazione dell’interesse singolo sul bene comune, perché hanno la consapevolezza che la creazione artistica possa avere una duplice valenza di denuncia e di educazione, e perché credono fermamente che l’arte possa, con la sua bellezza e forza rigenerante, smuovere le coscienze e, come fine ultimo, salvare il mondo in cui viviamo. “Oggi più che mai c’è bisogno di unirsi: l’unione fa la forza nei momenti di difficoltà” (Fabio Ferrone Viola).